I disturbi depressivi sono abbastanza comuni nelle società occidentali: circa il 7% della popolazione statunitense soffre di disturbo depressivo maggiore, mentre il disturbo depressivo persistente è presente nell’1,5%. Le femmine hanno tassi di 1,5-3 volte maggiori rispetto ai maschi.
Data l’elevata diffusione, è particolarmente utile anche per la persona comune, non addetta ai lavori, avere una chiara comprensione del fenomeno, utile a capire quando la normale tristezza si trasforma in disturbo. Il punto di partenza è la conoscenza della diagnosi psichiatrica, a cui va aggiunta la comprensione delle cause e gli strumenti terapeutici per superare con successo un momento difficile.
La depressione è un disturbo dell’umore caratterizzato da un’alterazione persistente del tono emotivo, che si manifesta con profonda tristezza, perdita di interesse per le attività quotidiane, affaticamento mentale e fisico, pensieri negativi ricorrenti. A differenza della normale tristezza — fisiologica e transitoria — la depressione interferisce in modo significativo con la vita personale, lavorativa e relazionale.
È utile partire proprio dalla tristezza per cogliere il confine tra una reazione emotiva sana e un disturbo psicopatologico. La tristezza è un’emozione fondamentale, che informa la mente su ciò che è stato perduto: una persona, un ruolo, un progetto, il senso del valore personale. Come tutte le emozioni, porta un messaggio: segnala un bisogno frustrato e ci invita a fermarci, riflettere, riorganizzare le priorità.
Marta, 42 anni, dopo la fine di una relazione importante ha iniziato a sentirsi triste, svuotata, spesso in lacrime. Nei primi mesi la tristezza aveva un senso chiaro: le mancava il compagno, la quotidianità condivisa, il futuro immaginato. Con il tempo, però, il dolore ha perso contorni precisi. Sono emerse difficoltà di concentrazione, disinteresse per il lavoro, disturbi del sonno, perdita di energia. A quel punto non si trattava più di una reazione alla perdita, ma di una depressione clinica.
Nel DSM-5 (1), i quadri clinici riconducibili alla depressione sono classificati principalmente come disturbo depressivo maggiore e disturbo depressivo persistente, anche detto distimia. Entrambi condividono alcune caratteristiche fondamentali, ma differiscono per durata, intensità e andamento temporale.
Il disturbo depressivo maggiore è definito da episodi distinti di depressione, ciascuno della durata minima di due settimane, durante i quali si osserva una marcata alterazione dello stato affettivo, cognitivo e neurovegetativo rispetto al funzionamento precedente. Questo quadro si distingue dal normale dolore per un lutto: sebbene entrambe le condizioni possano includere tristezza, insonnia e ritiro sociale, nella depressione maggiore i sintomi sono più intensi, pervasivi e disorganizzanti. È anche possibile che, in soggetti vulnerabili, un lutto inneschi un episodio depressivo vero e proprio.
Quando invece la sintomatologia depressiva persiste per la maggior parte del giorno, quasi tutti i giorni, per almeno due anni, si parla di disturbo depressivo persistente o distimia. In questo caso, il tono dell’umore è cronicamente deflesso, spesso accompagnato da bassa autostima, senso di inefficacia, affaticamento e perdita di speranza. Pur potendo apparire meno grave di un episodio depressivo maggiore, la distimia è clinicamente rilevante per l’impatto duraturo sulla qualità della vita e sulla percezione di sé.
Chiara, 39 anni, racconta di non ricordare un periodo della sua vita in cui si sia sentita davvero serena o motivata. Non presenta cali d’umore improvvisi, ma un tono costantemente basso, accompagnato da difficoltà a prendere decisioni, perdita di interesse per le relazioni e una convinzione profonda di “non valere abbastanza”. La sua quotidianità è funzionale sul piano pratico, ma priva di coinvolgimento emotivo. In seduta emerge un pensiero radicato: “sono sempre stata così”. Il quadro clinico è coerente con una distimia ad esordio precoce, sottovalutata per anni.
Secondo il DSM-5, un episodio depressivo maggiore richiede la presenza, per almeno due settimane, di umore depresso o perdita di interesse/piacere (anedonia) come sintomi principali, accompagnati da almeno quattro dei seguenti:
I vissuti depressivi possono manifestarsi in modo variegato. Alcuni pazienti descrivono tristezza e disperazione evidenti, altri riferiscono una sensazione di vuoto emotivo o di essere “spenti”, quasi anestetizzati. In certi casi prevalgono i sintomi fisici: dolori vaghi, tensione muscolare, astenia. In adolescenti e bambini è comune l’irritabilità come espressione primaria del disturbo.
L’anedonia è quasi sempre presente: le attività un tempo gratificanti perdono di senso, portando al ritiro sociale e alla perdita di coinvolgimento nella vita quotidiana. Anche la sfera sessuale può risentirne, con una riduzione del desiderio.
Le alterazioni dell’appetito e del sonno possono variare in senso opposto: alcuni riferiscono diminuzione marcata, altri un aumento compensatorio. L’insonnia è tipicamente centrale o terminale, con risvegli notturni frequenti o precoci.
Dal punto di vista psicomotorio, si osservano rallentamento dei movimenti, eloquio più lento e latenza nella risposta. In alcuni casi, l’agitazione si manifesta con irrequietezza motoria o tensione interna.
Il senso di colpa e l’autosvalutazione sono due elementi clinici centrali: possono presentarsi come ruminazioni su errori passati, senso di inadeguatezza cronica, o autocritica sistematica. In pazienti perfezionisti, questi contenuti si associano a un forte giudizio morale su sé stessi, aggravando la sintomatologia.
Quando la sofferenza emotiva diventa ingestibile e la percezione di fallimento si cronicizza, possono emergere ideazioni suicidarie, che richiedono sempre un’attenta valutazione clinica.
La depressione rappresenta una delle principali sfide della salute mentale per la società contemporanea. È una condizione complessa, caratterizzata da una molteplicità di sintomi che spaziano dall’umore deflesso alla perdita di energia, dalla riduzione dell’interesse per le attività quotidiane fino alle difficoltà cognitive. Nonostante la sua diffusione e l’impatto sociale ed economico considerevole, la depressione continua a essere accompagnata da un dibattito acceso sui trattamenti più efficaci, in particolare sul rapporto tra farmacoterapia e psicoterapia.
La combinazione farmaco + psicoterapia supera la sola farmacoterapia non solo nel breve periodo, ma anche a lungo termine, riducendo il rischio di ricaduta e di nuove ospedalizzazioni (4).
Questo è comprensibile se si considera che la depressione, oltre all’eventuale danno neurovegetativo, presenta soprattutto una componente psicologica, che scaturisce dalla storia di vita della persona e dal modo in cui ha cercato di affrontare le difficoltà esistenziali. Se l’intervento psichiatrico mira a supportare il sistema nervoso e a riparare i danni che lo stress cronico ha causato, nella maggior parte dei casi è il percorso psicoterapeutico a giocare un ruolo determinante nell’aiutare la persona a superare definitivamente le cause profonde da cui la depressione ha avuto origine.
Il panorama attuale della ricerca suggerisce con forza che la psicoterapia non è soltanto un’alternativa, ma un pilastro nel trattamento della depressione. Essa non si limita a ridurre i sintomi, ma promuove un cambiamento profondo nei modi di pensare, sentire e relazionarsi al mondo. Il modello dell’impotenza appresa offre una spiegazione psicologica del fenomeno che ci ricorda quanto la perdita di controllo e di speranza sia centrale nella genesi della sofferenza depressiva; la psicoterapia, di contro, restituisce al paziente strumenti di scelta, senso di potere, speranza ed efficacia nella possibilità di soddisfare i propri bisogni emotivi, relazionali e lavorativi. In definitiva, non si tratta solo di curare la depressione, ma di aiutare la persona a recuperare la possibilità di vivere una vita significativa e autodeterminata.
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(1) “Manuale diagnostico e statistico dei disturbi mentali DSM-5”, Raffaello Cortina ed.